Attività - Criticità del contratto di filiera nel mondo dello spettacolo

Criticità del contratto di filiera  nel mondo dello spettacolo

Criticità del contratto di filiera nel mondo dello spettacolo

Storicamente i contratti di filiera fanno il loro

ingresso nel mondo del lavoro italiano negli

anni 90, nel settore agroalimentare, con lo

scopo di valorizzare la catena produttiva delle

derrate alimentari, efficientando l’intero iter

del prodotto: dal produttore al consumatore,

si diceva. Con il DL 228/2001 si è cercato di ricondurre la frammentazione del settore agroalimentare, fatto di differenti modalità produttive e di innumerevoli peculiarità identitarie dei

lavoratori e dei produttori coinvolti, ad una integrazione che potesse uniformare gli investimenti strutturali e le pratiche di distribuzione

dei prodotti, creando valore e beneficio lungo

tutta la catena.

Purtroppo però, le evidenze hanno mostrato

presto una serie di difetti piuttosto rilevanti,

soprattutto a scapito del primo e originario

anello della catena, quello delle piccole imprese

degli agricoltori, come evidenziato da numerosi

studi facilmente consultabili in rete (vedasi ad

es. “Abuso di filiera e giustizia del contratto”

Stefano Masini, 2022 Cacucci Editore). La

grande distribuzione ha infatti, quasi da subito,

esercitato una pressione sempre più insostenibile sui ricavi degli agricoltori, costringendo

questi ultimi su margini sempre più risibili. Produrre frumento, latte o cetrioli è via via divenuto sempre meno conveniente per chi era a

contatto con la terra, ma sempre più remunerativo per chi invece si occupava di intermediazione, distribuzione, politica.

I recenti tentativi di introdurre, di inoculare questa tipologia contrattuale, la cosiddetta “filiera”,

anche in altri settori del mondo del lavoro nazionale, dimostra la pervicace volontà di conUno spettacolo ogni sera è il risultato

“energetico” dell’applicazione di

differenti professionalità che operano

con diverse modalità, tempi ed orari

a cura di Francesco Bolo Rossini, 

Coordinatore Nazionale Uilcom Spettacolo dal Vivo

Settore Produzione Culturale

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tinuare su questa strada di omologazione

delle peculiarità identitarie e delle modalità

produttive delle piccole e medie imprese,

assoggettando queste realtà, e soprattutto

i lavoratori che ne fanno parte, alle logiche

della grande distribuzione, spesso internazionale, che finiscono sempre per risultare come il ricatto finale sull’esistenza di

queste imprese di piccole dimensioni. 

L’effetto devastante di un simile contratto,

si verificherebbe a maggior ragione nel

caso della sua applicazione nel settore culturale, dove già l’assunto di chiamare “prodotto” ciò che invece dovrebbe chiamarsi

“opera”, nasconde malamente gli intenti di

profitto economico e di omologazione intellettuale esercitati dalla grande distribuzione con l’avallo della politica. 

Prendendo in considerazione il comparto

dello spettacolo, entità essenziale del

grande settore culturale, e resistendo alla

tentazione di alcuni (purtroppo anche di

una parte del mondo sindacale) di equiparare uno spettacolo o un film ad un cetriolo,

si evince subito come questa tipologia di

contratto vada immancabilmente a costruire un potere negoziale eccessivo per

alcuni soggetti (grandi piattaforme, major

e OTT), come già sta avvenendo con la recente legiferazione sia in tema di spettacolo dal vivo, in particolare col Fondo Nazionale Spettacolo dal Vivo (ex Fus)

interamente orientato allo sviluppo “commerciale” del teatro pubblico o, ancora più

evidentemente nel cine audiovisivo, con

l’ormai surreale e pluricorretto “nuovo decreto Tax Credit”, escludendo così dai finanziamenti pubblici ogni tipo di produzione d’opera culturale indipendente e

libera dalle logiche del profitto. Il contratto

collettivo “di filiera” è una parte rilevante

di questa strategia omologante e tende ad

incatenare professioni contigue, ma molto

differenti, in una logica di controllo e di conseguente abbassamento dei compensi. 

Ma, al di là del dato politico-economico,

ormai interamente devoluto dal Ministero

della Cultura a questi grandi soggetti commerciali, ciò che stupisce è l’assoluta ignoranza di chi propone insistentemente questa tipologia contrattuale, in tema di modalità lavorative, identità professionali e finalità dell’attività culturale e spettacolare. 

Nel contratto di filiera, il cetriolo ha dimensioni, peso e costo preordinato e stabilito,

talvolta è quotato in borsa ed esportato

nei quattro angoli del mondo. Uno spettacolo invece è differente ogni sera, genera

qualcosa di immateriale ma fortemente

tangibile, ed è il risultato “energetico” dell’applicazione di differenti professionalità,

che operano con diverse modalità, tempi

e orari. 

Inoltre per una parte di questi lavoratori,

gli interpreti, il lavoro può implicare una gestione personale che non si trova in altri

mestieri (ad esempio il mantenimento di

un look, di una barba, di un’acconciatura o

addirittura del peso corporeo) che non può

essere ingabbiato nella casistica “di filiera”.

Inoltre, e questo è il dato che maggiormente denota l’ingenuità di chi propone

questa tipologia contrattuale, non si tiene

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in considerazione il fatto che alcune professioni del settore generano diritti, come

quello d’immagine o di copyright, che sono

per natura inconciliabili con la massificazione della filiera, poiché esclusivamente

personali. 

L’intermediazione e la grande distribuzione

non possono piegare queste modalità e

queste pratiche secolari di produzione culturale, secondo i desiderata di chi pretende

standard commerciali. E non possono

nemmeno mettere in relazione le professioni “più tecniche” del mondo dello spettacolo, quali le maestranze, con le già asfissianti catene produttive dei settori

commerciali. 

Un elettricista o un light designer di uno

spettacolo teatrale o di un’opera lirica, non

è assimilabile ad un elettricista industriale;

un macchinista cinematografico, una costumista, una sarta, un parrucchiere o uno

scenografo, non possono essere trattati al

pari dei loro omologhi industriali, perché i

mestieri dello spettacolo non sono professionalità riconducibili ad una “filiera del prodotto”. Insomma la forzatura di mettere in

relazione i lavoratori dello spettacolo con

le professioni industriali è totalmente arbitraria e concatenarli sulla base della definizione di prodotto anziché di opera, sarebbe come mettere in filiera chi produce

scarpe con chi costruisce marciapiedi. 

Qui si tratta di mestieri dell’Arte che creano

opere. Sono le perle di una collana, appese

ad un filo, non ad una “filiera”. Ogni perla

ha ragion d’essere in quanto mestiere culturale e, all’interno del grande settore dello

spettacolo, non si sente il bisogno di un

recinto dove stare tutti dentro. La solidarietà tra comparti, tra maestranze, artisti

e talvolta produttori, è sempre stata presente per la salvaguardia del settore, ma

nessuno di questi soggetti pensa che per

accrescere i diritti delle singole professioni,

di questi anelli della catena, si debba avere

un contratto di “filiera”. Perché significherebbe mettersi nelle mani di chi questa catena la usa da sempre per chiudere il recinto e portare la contrattazione su

paradigmi già conosciuti, quelli appunto subiti dagli agricoltori. 

Non abbiamo bisogno di una “Netflix della

cultura” (cit. Ministro della Cultura, 2022). 

Allo stato attuale, piuttosto che perseverare su progetti e strategie nate a freddo,

come esercizio solipsistico in qualche remoto ufficio, senza la conoscenza dei mestieri del settore, ci sarebbe da ascoltare

le lavoratrici e i lavoratori per chiudere i

singoli contratti collettivi che ormai da anni

non sono aggiornati. 

C’è urgentemente da definire uno statuto

delle professioni della cultura e dello spettacolo, quantomeno per mettersi a livello

europeo, e c’è da costruire per intero un

welfare ad uso di questa categoria di lavoratrici e lavoratori ma, soprattutto, c’è

da ridare dignità ad un settore che, per

quanto la politica, l’industria e qualche ingenuo e ostinato operatore si ostinino a

cercare di incatenare in un contratto di filiera, non è e non sarà mai un cetriolo.

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